L'uomo che perse una Pasqua

 

SCHEGGIA #2352: New York, 3 gennaio 2008

[Oggi, 3 gennaio 2008, sento improvvisamente l’impulso di tornare alle mie schegge del 7 aprile 2007; avevo pubblicato la prima come numero 2298 della puntata precedente (su Steve 33 dell’autunno-inverno 2007), ma in quella occasione non avevo trascritto un’altra scheggia che avevo composto in quello stesso giorno, 7/4/07; eccola qui di seguito]

Oggi [7 aprile 2007] il risveglio è più difficile del solito. Ho una breve ma forte crisi emotiva, pensando al Figlio dell’Uomo sotto terra; e ricordo che un’emozione simile era già sprizzata fuori, in Sabati Santi passati … Quello che mi commuove è pensare al Figlio dell’Uomo (già maiuscolato e consacrato) che resta sottoterra per alcune lunghe ore, come in agguato di se stesso, per poi riemergerne con una scricchiolante fatica.

Appena questa crisi si è placata, mi rendo conto di una prima conseguenza dell’esperienza veramente mistica di ieri (la processione della Via Crucis lungo il ponte di Brooklyn, fino a Manhattan nella zona di Wall Street): mi sono lasciato alle spalle la politica – ne ho perduto la passione. Ma non è un fenomeno puramente negativo. Il lato positivo è che ciò ha confermato la mia fede nella preghiera, come il solo mezzo di intervento nella società che mi sia rimasto. Ciò non esclude l’osservazione attenta della politica, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Resto un citoyen, in un senso più meno rousseauiano – anzi, a questo punto della mia vita io sono un doppio cittadino; e sento che questa mia modestissima esperienza individuale di doppia cittadinanza è il sintomo e l’anticipazione di un nuovo modo di esistenza politica, che ravviverà il senso di questo trito aggettivo, “globale”. La politica dunque continua a interessarmi profondamente, e in un certo senso a coinvolgermi – ma senza la passione militante. Del resto, la preghiera non implica un abbassamento del livello mentale, quasi fosse una forma di dolce stupidità: preghiera non esclude analisi. Semplicemente, i limiti del mio temperamento e della mia attuale posizione di vita si sono chiariti in modo definitivo. La preghiera è l’unica attività (umile, ridotta, concreta) con cui riesco a rispondere agli enormi problemi mondiali che come marosi si abbattono su noi tutti.

 

#2353: North Branford, 10 gennaio 2008

Alla fine della messa nella Chiesa sulla Collina il sacerdote ci ricorda che oggi è la Giornata Mondiale del Matrimonio, e chiede a tutte le coppie presenti in chiesa di alzarsi e rinnovare le loro promesse matrimoniali, rispondendo a una sua lista ritualizzata di domande. L’effetto sonoro è interessante: la coralità delle risposte alle domande del sacerdote è frammentata dalla indispensabile discordanza quando ogni singola coppia riempie con i propri nomi lo spazio di silenzio lasciato dall’officiante. Tutto ciò dura pochi minuti, ma l’eco spirituale persiste.

Ascoltando questa piccola coralità discordante provo in forma più chiara un sentimento che mi visita quasi regolarmente, quando partecipo alla messa nella Chiesa sulla Collina: un sentimento che definirei di dolce esclusione. In questa congregazione le famiglie sono numerose e orgogliose – orgogliose di se stesse come famiglie. Ciò mi esclude; ma sento che qui, in un ambito religioso, questa esclusione non è, per così dire, esclusionaria. E’ essa non è solo giusta, ma misericordiosa: mi “mette al mio posto”, ma senza asprezza o polemica. Mi colloca, cioè, in quella che credo resterà la mia posizione per il resto dell’esistenza: un posto di penitenza, non di punizione – un luogo di contemplazione precativa (prayerful), dai margini.

Quanto a quel rinnovamento dei voti matrimoniali, sento che debbo ri-appuntare e sviluppare un pensiero che avevo già espresso da qualche parte [in a una poesia del mio libro Piazza delle preghiere massacrate pubblicato nel 1999 dalle Edizioni del Laboratorio, e anche in alcuni messaggi elettronici più recenti rivolti ad amici]. È un pensiero che io stesso ancora non comprendo chiaramente, ma sul quale appunto per questo continuo a ritornare: il pensiero dell’Ottavo Sacramento. Se il matrimonio è uno dei sette sacramenti, a me pare che la famiglia meriti e necessiti di essere aggiunta come una appendice semi-autonoma, come sacramento laico e aggiuntivo – l’ottavo, dunque. La famiglia è come uno stagno o acquitrino che si allarga intorno a quella sorgente che è il matrimonio – e non parlo certo di stagno o acquitrino in modo dispregiativo (penso in effetti all’inglese wetland – parola più tranquillamente descrittiva ).

La famiglia è un terreno molle, delicato – un terrain vague – un terreno senza certezze e con molti compromessi – un territorio che richiede un’immensa pazienza. Nel mio rispetto per tutti i sacramenti, ammiro anche la loro possibile aggiunta laica: la famiglia come ottavo sacramento.

 

#2356: North Branford, 26 aprile 2008

Chi parla a lungo dell’amore in quanto scambio erotico-sentimentale tra esseri umani finisce prima o poi con l’essere criticato per la sua superficialità o addirittura banalità. Chi parla a lungo dell’amore come scambio con Dio finisce prima o poi con l’essere accusato di oscurità, se non di incomprensibilità; o di vaghezza, se non di ipocrisia; o di irrazionalità, se non di follia.

Nella prima parte della mia vita ho corso il primo rischio. (E questa prima parte è stata lunga; è stata, ahimé, quella che l’inglese chiama, in senso più ancora quantitativo che qualitativo, “the better part” – una “better part” spesa non sempre bene…). E’ giusto quindi che, nella seconda e ultima parte della mia vita, io affronti il secondo rischio.

 

#2359: Manhattan, 12 maggio 2008

Fra le tante difficoltà di esistere come cristiani c’è anche questa: il cristiano è un individuo misto (più complicato di un centauro), un individuo che contiene in sé personalità diverse. Ogni cristiano, cioè, è almeno altre due persone: è anche un po’ ebreo, è anche un po’ ateo. Se il cristiano è continuamente consapevole della lotta morale fra il bene e il male dentro di sé, quasi altrettanto importante che questa lotta morale è la lotta mentale tra le differenti personalità di cui sopra.

E, se la lotta morale è anche in un certo senso una lotta mortale – ne l senso di:  combattimento senza quartiere, tutto orientato alla vittoria – la lotta mentale mira invece a stabilire un equilibrio (un compromesso) tra queste diverse personalità culturali e psicologiche.

 

leaves#2360: Bologna, 18 maggio 2008

Ormai la scrittura per me non è una questione di intelligenza, ma di sopravvivenza. In effetti, ogni buona opinione che io abbia mai avuto della mia intelligenza (ammesso e non concesso che l’abbia mai avuta) è gradualmente svanita; del resto il mio pericolo – che molti miei “amici” non hanno ancora capito – non è mai stato quello di una eccessiva autostima, ma esattamente il contrario: il pericolo di un disfacimento, di un dubbio radicale sulla solidità dei miei pensieri, sulla affidabilità della mia casa mentale.

Le cause? Il passare degli anni (che non spiega sostanzialmente nulla, ma che qui registro come atto dovuto di omaggio a quella elusiva nebbiolina che è il cosiddetto buon senso); l’intensificarsi dell’autocritica morale; lo spettacolo della malattia mentale di persone care; varie delusioni professionali, legate soprattutto alla mia continua esitazione fra due modi divergenti di pensare / leggere / scrivere; ecc. (La lista non è ordinata, e non è completa.).

Ma questo è un discorso che mi porterebbe troppo lontano e troppo indietro. Ciò che qui preme appuntare è che la mia presso che quotidiana attività di scrittura non è legata a un’idea di esercizio dell’intelligenza. (Quando penso a me in rapporto alla categoria “intelligenza”, vedo un cono d’ombra.) Non scrivo, dunque, per dare coltivazione ed espressione a una mia putativa intelligenza – scrivo perché altrimenti la mia poca-stima di me stesso diventerebbe una depressione suicidaria.

A questo punto, uno dei miei amici, o anche uno dei miei “amici”, potrebbe obiettarmi: ‘Ma come si fa anche solo a concepire l’attività dello scrivere, senza coltivare l’intelligenza?’ Ed è un’obiezione che fa pensare – anzi, che fa tremare la mano scrivente. (Le critiche e obiezioni degli amici sono sempre utili; ma anche quelle degli “amici” – del tipo “Dagli amici mi guardi Iddio, ecc.” – non sono inutili, però sono insidiose, in quanto anche troppo congeniali, esprimendo elementi che effettivamente si trovano dentro di noi; per contrasto, le critiche e obiezioni dei nostri nemici sono di solito così estreme e stonate che causano assai minori dubitazioni.)

Ma qui non è questione di escogitare soluzioni astratte, bensì di trovare accorgimenti per la – insisto – sopravvivenza. Mi aggrappo ai restanti brandelli e barlumi d’intelligenza, li applico in corso d’opera – cioè nell’atto stesso in cui scrivo, non come propedeutiche alla scrittura; insomma mi arrangio, mi arrabatto, faccio del bricolage.

 

#2361: Bologna, 18 maggio 2008 (più tardi)

Il mese scorso ascoltai una conferenziera parlare di una scrittrice modernista (mi pare si trattasse di Virginia Woolf) come di una persona curious and porous – rima che sopravvive esattamente in italiano: ‘curiosa e porosa’. E avevo – fatte salve s’intende le debite proporzioni – riconosciuto in questa coppia di attributi una definizione che potrebbe applicarsi anche al mio piccolo me. Tuttavia: io sono curioso in modo … curiosamente selettivo; sono curioso di minuscoli eventi e dettagli, e tendo poi a essere distratto riguardo alle precise determinazioni spazio-temporali, ai confronti e dettagli pragmatici. La mia porosità, d’altra parte, è estrema: ogni giorno sono assalito da decine di idee / sensazioni / impressioni / sentimenti / emozioni – e vorrei metterle tutte sulla carta.

Mi rendo conto del pericolo di questa onnivoracità, o curiosità porosa: il pericolo (per ricorrere al vecchio modo di dire) che volendo afferrare troppo io finisca per non stringere nulla – il ricorrente pericolo di lasciare dietro di me un mare di abbozzi incompleti. Nel momento in cui (uscendo dalla mia curiosità porosa) mi concentro sulla scrittura di una pagina specifica, il piacere dell’espressione viene intorbidito dal dubbio che la pagina di scrittura cui dovrei dedicarmi sia un’altra…

Un amico senza virgolette (S. J.), con il quale ho appena parlato al telefono, mi consiglia di adottare “l’autoritarismo dell’autore”. A parte l’iperbole, qui c’è qualcosa di giusto: debbo comandarmi di scegliere chiaramente che cosa trascrivere e che cosa lasciare nella penna, debbo impormi i tagli che sono sempre necessari per concludere uno scritto.

 

#2362: Bologna, 21 maggio 2008

Trascrivo qui la parte centrale di un messaggio elettronico inviato all’amico e collega A. C. il mese scorso, perché mi rendo conto che esso non è privo di nessi con la riflessione svolta nella scheggia precedente.

“Mi ero rassegnato ormai a essere postumo; ma adesso mi rendo conto di quanto eccessivo fosse il mio ottimismo (perché mai dovrei essere così presuntuoso da pensare alla postumità?); donde il seguente paradosso:

“Un cristiano (come io tento di essere) è certo sostenuto da una speranza – o da una forma di auto-consolazione (come dicono con un sorriso alquanto ironico i miei amici atei, cioè la maggior parte dei miei amici). Ma se capita che questo (semi-) cristiano sia anche scrittore, e veda la sua opera e pensiero sull’orlo di scomparire nel Nulla, egli per quanto credente – o forse proprio in quanto credente –  sperimenta una forma di disperanza che si avvicina alla disperazione e addirittura può evcocare un’ombra di dannazione”.

 

#2363: Bologna, 22 maggio 2008

L’odio è ripetitivo quanto l’amore (e vedi scheggia #2356). Si può dire che quella dell’amore è una ripetizione virtuosa, a differenza di quella dell’odio; ovvero, l’amore può essere definito come una buona noia, e l’odio come una noia cattiva. Ma allora la varietà della vita si trova, ai due poli opposti, analogamente sacrificata. Si può dunque pensare che l’intrattenimento della vita si situi in una zona intermedia, a metà tra i due poli opposti dell’odio e dell’amore.

E dico “intrattenimento” non in senso edonistico, quanto piuttosto nel senso di quella coltivazione dello spirito che rende la vita qualche cosa di più che semplicemente sopportabile; diciamo, che la rende interessante. La vita, insomma, come capacità di raccontare e raccontarsi casi vari. Si intende che questi casi poi rappresentano le diverse sfumature intermedie e le più o meno grandi (anzi molto spesso decisamente piccole) peripezie che si estendono fra i due poli un po’ monocordi dell’odio e dell’amore. In questa prospettiva, la famosa coppia biblico-leopardiana di Amore e Morte risulta un po’ sopravvalutata, nella sua capacita’ di ordinamento ermeneutico dei sentimenti. La coppia che ho appena descritto, Amore e Odio, è almeno altrettanto importante.

 

#2364: Bologna, 23 maggio 2008

Il panteismo – in quanto atteggiamento di fede – mi pare essenzialmente un fenomeno di momenti. Come ci si può sentire veramente panteisti (sentire – dunque sentimento e spiritualità, non elucubrazioni a tavolino), se non per momenti di esaltazione? Non si può venerare un pezzo di cielo, un sasso, un filo d’erba, se non in attimi di intensità epifanica, in stati simili a dolci auto-allucinazioni. Dico “dolci” e “auto-“ per escludere il fenomeno artificiale e fondamentalmente pigro delle droghe. Anche se è significativo che questi entusiasmi di fronte a un sasso siano tipici di certi stati drogati – i quali non mi risulta favoriscano, per esempio, il raccoglimento in preghiera; e tutto ciò vorrà pur dire qualcosa, rispetto alla questione decisiva: che è quella della durata, della continuità.

La prosaicità, il tran-tran, sono in fondo una garanzia di autenticità nell’esperienza spirituale. Certo, ci sono i momenti di raptus, i tuffi estatici, le epifanie – e occorre farne tesoro, occorre tesaurizzarli (se è permesso un anglicismo). Ma prima e dopo (forse anche: durante) questi momenti restano certe care abitudini, resta la routine di un rapporto che nasce da relazioni di tipo familiare; relazioni cioè in cui lo spirito assume ruoli paterno-materno-filiali, anche in assenza delle figure biologiche corrispondenti, e senza preoccuparsi di distinguere rigidamente fra tali ruoli. (Queste distinzioni sono funzionali e doverose in seno alle famiglie naturalisticamente intese; ma questa doverosità è anche il limite della famiglia come costruzione naturalistica, che in quanto tale, resta sotto l’ombra del timore dell’incesto.)

 

gramercy#2365: Manhattan, 5 giugno 2008

Ascolto in media una omelia ogni due giorni, e non mi annoio mai. (Questa affermazione potrà suscitare ironia o addirittura sarcasmo, ma non so che farci: come ho già scritto altre volte, questo romanzo diario è orientato verso la descrizione fedele di una esperienza (la modesta verità di una vita), ed è meno preoccupato delle figure intellettuali alla moda.) Certo, a volte mi capita di distrarmi un poco, ma questo mi accade anche ascoltando le conferenze più dotte e più laiche; comunque, nel caso delle omelie durante la messa, le momentanee distrazioni non bloccano i messaggi: certe immagini della predica pervengono anche attraverso il momento di nebbia, e fluttuano nella mente – anzi, in questo modo accade spesso che esse si imprimano meglio, risultino più suggestive.

L’altro giorno, per esempio, mi sono riscosso da un momento di vuoto ascoltando una frase che mi è risuonata dentro: “To bring people to God”. Frase, peraltro, che mi ha messo in soggezione: non ho l’autorità morale necessaria per questo compito. Se è per questo, non ho neanche l’autorità morale richiesta per portare Dio alla gente; ma in questo secondo caso, la situazione è più fluida e sfumata. Forse perfino un peccatore può fare qualcosa in quest’ultima direzione; in verità, è perfino possibile che un peccatore sia particolarmente adatto a far ciò. Perché un peccatore è un uomo scavato – ma debbo precisare, ed è tutt’altro che una pedanteria: un uomo scavato (hollowed out) non è un uomo vuoto, hollow (pensa agli “hollow men” descritti in un famoso verso di T. S. Eliot). Un uomo scavato è come una piroga o una canoa ricavata da uno scavo dentro un tronco d’albero: ciò che viene tolto crea un veicolo, un mezzo di trasporto o trasmissione. Certe versioni inglesi della famosa preghiera apocrifamente attribuita a Francesco d’Assisi dicono: “Fa di me uno strumento della Tua pace”, ma altre recitano: “Fa di me un condotto (channel) della Tua pace” – e quest’ultima è l’immagine che, nella mia ibrida vita fra due lingue, è rimasta più vivida nella mente (vividamente).

Per esempio: soltanto quest’estate ho finalmente capito il perché della mia persistente fascinazione verso la gondola, nonostante l’orrorino veneziano che essa rappresenta. A me la gondola non ricorda una bara, nonostante la presenza di un topos secolare a questo proposito. (Una delle prime e più divertenti descrizioni è quella di Byron: “una bara applicata a una canoa”.) No – la profonda ragione per cui non mi stanco, nei miei passaggi veneziani, di contemplare le gondole non ha a che fare con alcun memento mori, ma essenzialmente con il suo contrario. Il vuoto elegantemente inarcato (il vuoto leggero, viaggiante) della gondola mi rende ogni volta l’immagine di un uomo cavo: un uomo interiormente scavato per poter meglio contenere e incanalare un messaggio. E quale sarà poi questo messaggio? L’idea di incanalare la pace di Dio è troppo grande per le mie risorse. So semplicemente che posso essere un veicolo, ma non so di che cosa. Viene alla mente l’espresssione dei Quakers: in ognuno di noi c’è una parte di “quel di Dio”. Ecco: vorrei trasmettere “quel di Dio” (qualunque cosa “quello” sia).

 

#2368: North Branford, 7 giugno 2008

La vita spirituale non premia l’originalità a tutti i costi, ma l’approfondimento. Dunque questo romanzo diario non disdegna il citazionario.

“Ma sono poi sicuro che il significato della mia vita è il significato che Dio ha in mente per essa? Forse Dio impone un significato alla mia vita dall’esterno, attraverso l’evento sociale, il costume, la routine, la legge, il sistema, il mio effetto sugli altri nella società? Oppure io sono chiamato a creare dall’ interno – creare con lui e con la sua grazia un significato che rifletta la sua verità e faccia di me la sua “parola”, liberamente parlata all’interno della mia situazione personale? La mia vera identità giace nascosta dentro il richiamo di Dio rivolto alla mia libertà, e dentro la mia risposta a lui […] Non posso scoprire il mio ‘significato’ se tento di sfuggire al timore (dread) che nasce dalla iniziale esperienza della mia assenza di significato!”
(Thomas Merton, Contemplative Prayer, Garden City, New York, Doubleday and Co., 1971, p. 68; sottolineature nel testo originario).

Non ho citato questo passo in quanto esso rappresenti un pensiero particolarmente originale, ma per la ragione quasi contraria. Esso costituisce una delle propaggini psicologico-devozionali di una tradizione di pensiero cui uno dei maggiori rappresentanti è Soeren Kierkegaard (il termine dread nel passo citato è in questo senso significativo), e il cui tono è ancora oggi ben vivo (penso per esempio allo stile teologico di Luigi Giussani).

 

#2369: New Haven, 24 giugno 2008
(Festività di San Giovanni Battista)

Oggi mentre uscivo dalla mia cara vecchia chiesa di Saint Mary a New Haven (che adesso frequento più raramente, per i mutati ritmi e luoghi della mia vita), è sorto un momento percettivo che mi ha ricordato un momento essenzialmente uguale apparso in questa stessa giornata e luogo l’anno scorso (e come tale mi ha anche fatto ripensare, ancora una volta, al fenomeno descritto in uno dei libri che più mi hanno esasperato e che mi sono più cari – più cari e meno chiari: Ripetizione, di Kierkegaard). Oggi come allora – “sembra ieri”, come si usa dire con una frase così trita che si è perduto il senso di quanto in verità essa sia terribile – oggi come allora partecipando alla messa avevo pensato al significato misterioso che questa data aveva in certi luoghi e momenti del Medio Evo. Nei romanzi in versi antico-francesi “la Saint-Jean” è il giorno privilegiato per una di quelle misteriose apparizioni che per un cavaliere errante segnano l’inizio di una aventure.

Ciò che oggi si ripete come l’anno scorso – tanto da configurarsi come la soglia spirituale dell’estate – è una scena semplice, ma che lascia un solco profondo: un uomo esce da una chiesa (stesso uomo, stessa chiesa) ancora assorto nella ricorrenza cui ha appena partecipato, e alla stessa ora (le otto del mattino) si trova di fronte allo stesso spettacolo: striscie alternate di denso sole e di ombra fonda si allungano sul terreno di fronte a lui, e sembrano un colonnato che marchi una direzione, una via. Tutto qui: ma è in questo mistero nudo che per me incomincia l’estate. 

 

#2370: Manhattan, 25 giugno 2008

Debbo tornare su quello che dicevo nella scheggia immediatamente precedente, su come comincino in tanti casi le avventure dei cavalieri erranti. Mentre evocavo ieri “La Saint-Jean ”mi sono reso conto per la prima volta del perché questo elemento sia rimasto tanto immerso nella mia mente: non per i dettagli in sé di questa o quella strana apparizione e della concatenazione di eventi alla quale essa dà origine (anche se tutto ciò è parte del mio amore per i romans medioevali); ma piuttosto per la sua almeno apparente casualità, che esprime il senso profondo e direi mistico di tali avventure. Il cavaliere errante sembra cercare le avventure, ma in realtà si lascia trovare da esse; e le radici di questa (apparente) passività, di questa “attenzione distratta” hanno a che fare anche con un senso di abbandono ai disegni della Provvidenza.

Mi viene in mente un’osservazione che lessi qualche anno fa in un libro molto laico sulla figura di Gesù. L’autore notava il modo casuale in cui Gesù distribuisce i suoi miracoli o “segni”; non risulta alcun chiaro criterio di decisione, su chi guarire e chi abbandonare alla sua condizione. Sembra insomma che Gesù operi a caso – si potrebbe addirittura dire: a casaccio. Se la memoria non mi inganna, a quel critico (peraltro assai colto teologicamente) non interessava molto esplorare le possibili ragioni spirituali di questo procedere “a casaccio”.

A me sembra che tutto ciò abbia a che fare essenzialmente con la dialettica della fede. Gesù risponde a una richiesta, a una supplica, che muove dalla fede – o almeno da una disperata speranza (l’ossimoro qui è inevitabile) di potere arrivare a credere; come quel personaggio evangelico che nella stessa frase – l’inglese direbbe: nella stessa emissione di fiato – dichiara di credere e poi supplica Gesù di aiutare la sua incredulità. Credere era difficile allora come è difficile oggi –  allora come oggi, dichiarare la propria fede è qualche cosa di simile a una disperata fuga in avanti; ed è probabile che Gesù prediliga per i suoi “segni” questi disperati fuggiaschi in avanti: perché il suo è un discorso di fede, non di magia o di medicina. E forse l’implicita risposta di Gesù a questo stralunato bisogno è che la fede funziona sempre, sia quando porta a un miracolo sia quando non porta a nessun risultato – o almeno, a nessun risultato tangibile e apparente ... Insomma, è come se lui dicesse:

‘La mia funzione principale non è quella di guarire o no, ma è quella di ricordare continuamente la necessità della fede. Io vi dico e ripeto: c’è fede – la fede c’è – la fede esiste – come possibilità, da qualche parte, dentro/fuori di voi. La vostra vita ha luogo nell’ambito dela fede – sia che la coltiviate nella vostra soggettività sia che, non credendo, voi tuttavia indirettamente beneficiate della atmosfera della fede dentro la quale più o meno consapevolmente vi bagnate come nella probatica piscina, anche e soprattutto per il movimento tutt’intorno a voi delle preghiere che continuamente (in susssurrìo ostinato e, al limite, passibile di stupidità, ma volonteroso) i credenti dedicano ai non credenti’.

Analogo, fatte salve le debite proporzioni, è il caso dei cavalieri erranti. Il mondo laico dei cavalieri erranti ha un profondo rapporto dialettico con il mondo della spiritualità. Il cavaliere è un uomo di fede: fede in se stesso, e in certi valori di onore e fedeltà, dentro un mondo nutrito di cristianesimo – e di eresie più o meno cristiane – e di una virtus ancora pagana, e di una attrazione mai completamente abbandonata per il lato diabolico di tutta questa esperienza. [Ho studiato questo groviglio nel caso di un lungo romanzo cavalleresco in prosa scritto originariamente in catalano: Tirant Lo Blanch.] Il cristianesimo dei cavalieri erranti è un cristianesimo mescidato, denso di contraddizioni, “impuro”. Cioè: è il cristianesimo.

 

#2371: Venezia, 10 luglio 2008

Ho scritto da qualche parte (non ricordo se in uno dei libri di questa Pentalogia o in una poesia) che l’inferno esiste forse soltanto per coloro che non ci credono.Trovo adesso, nella “Prefazione” di Casanova alla sua autobiografia, un pensiero analogo:

“Dio non cessa di essere Dio che per coloro che osano pensare che non esista, e questa è una ben dura punizione” [vedi Giacomo Casanova, Storia della mia vita, a c. di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 2001 (sesta ed.), vol. 1, p. 4].

Pensiero analogo – ma non coincidente. I non credenti, sembra dire Casanova, sono puniti per il fatto che dal loro mondo scompare Dio. E’ una riflessione persuasiva; e il fatto che un libertino possa proporre indicazioni etiche persuasive, non solo non implica una contraddizione ma è coerente con quella esperienza di esplorazione profonda, esplorazione al limite, che caratterizza il vero libertino.

Il mio pensiero invece – non dico che sia più o meno profondo: dico che è più intricato – tanto che non sono sicuro di aver ben compreso ciò che io stesso ho scritto. (Vedi anche, a proposito di questa difficoltà a comprendere i propri pensieri, la scheggia #2353.) Quel che so è che non intendevo primariamente dire che chi non crede all’inferno ci finisce, mentre chi ci crede ha buone possibilità di esserne salvato (anche se debbo ammettere che questa è la più piccola e meno interessante componente di quel mio pensiero). Forse quello che volevo sostanzialmente dire è che rimuovere ogni pensiero dell’inferno significa entrare completamente e acriticamente dentro l’infernetto quotidiano della realtà in quanto privata di trascendenza; mentre non dimenticarsi dell’inferno potrebbe significare (soprattutto nell’atmosfera spirituale contemporanea) resistere alla pressione della piattezza che schiaccia ed è schiacciata, insistere nel pensare/sentire la vita in termini di trascendenza. Il che significa in fondo spostare l’inferno da un lato (senza negarlo o cancellarlo) – evitare temporaneamente l’inferno con uno scambietto: il minuetto dell’infernetto.

 

#2372: Venezia, 12 luglio 2008

No – non posso dire che ogni volta che penso ad amici, conoscenti, colleghi, nemici, prego per loro. Sarebbe una soluzione troppo facile, e tipica di un certo pensiero laicista: quello che, invece di prendere di petto il sacro e tentare di “demistificarlo”, sceglie di dargli qualche considerazione – anzi: sembra tributargli quel rispetto che consiste nell’allargare il suo dominio. In realtà, questo pensiero allargato finisce con l’ampliare l’area del sacro tanto da vanificarlo: se ogni attività mentalmente concentrata è una preghiera, allora la preghiera cessa di esistere – se tutto risulta essere sacro, nulla è sacro.Vale la pena, allora, di considerare la preghiera un poco più seriamente; del resto, non è una questione di pensiero astratto: è la pratica della preghiera a insegnarci le delimitazioni pertinenti.

Per esempio. In questi giorni penso spesso a due o tre colleghi più giovani di me, operanti fra gli Stai Uniti e l’Italia; e provo verso di loro un misto di sentimenti, di sensazioni. Da un lato rispetto la loro intelligenza e sono affezionato a loro; dall’altro non sono poi così ingenuo da non vedere i conflitti di strategie che a volte ci separano – pur nel nome della comune causa superiore (gli studi, la ricerca, l'educazione dei giovani). Quando io penso a B., a R., a N., in questo modo, li rispetto, ma non posso dire che prego per loro. Ma quando (come mi accade di fare sempre più frequentemente negli ultimi tempi) me li raffiguro mentalmente, nella solitudine di questo appartamentino veneziano, dentra la loro fondamentale autonomia – quando mi rendo conto che i loro pensieri, anche quando coincidono con i miei piani, restano comunque loro appannaggio, loro idiosincratica proprietà e caratteristica – quando inoltre mi rendo conto che le motivazioni di B., N., R. e altri simili (“what makes them tick”, per dirla all’inglese) restano e resteranno per me un mistero – quando li lascio all’interno di questa sfera di mistero, che è poi la sfera della loro libertà – e quando desidero a loro disinteressatamente ogni bene e successo nelle loro singole vite orientate verso i misteri dei loro singoli destini –  quando faccio questo, allora vermamente prego per loro. Insomma: Che cosa so delle persone che “conosco”? Quasi nulla. Che cosa desidero per loro? Tutto; cioè la realizzazione completa del loro destino. La preghiera consiste in questo desiderio.

 

#2373: Bologna, 26 luglio 2008

Avevo già pensato (e forse scritto?) che l’amore è autentico solo quando arriva a misurarsi con l’orrore; e purtroppo scopro quasi ogni giorno (con un morso e una morsa fredda allo stomaco) che avevo più ragione di quello che inizialmente avessi pensato. Avevo scritto una poesia non priva di nessi con questa riflessione, ma la trascrivo qui di seguito in prosa perché, anche se si tratta di un pensiero che non rinnego, non sono sicuro che la poesia sia la veste migliore per esso:

“L’odio è un pungiglione più che una freccia: dissangua l’odiatore nell’atto stesso in cui ferisce l’odiato. La devastazione dell’odio allarga ma anche restringe: è un vasto deserto di stanchezza, oppure (e anche) una grotta familiale dove ogni membro del minuscolo clan se ne sta acquattato e sornionamente aspetta la morte degli altri”.

Avevo anche già scritto e riscritto (vedi, ancora una volta, la scheggia #2353) che la famiglia costituisce l’ottavo sacramento. Vedo adesso (più chiaramente che nella scheggia citata) che originariamente pensavo alla famiglia come una prosecuzione eroica, e una verifica, del matrimonio. E’ ben vero che (il lettore lo avrà già pensato) nel momento stesso in cui si parla di sacramento – dunque, nel contesto della tradizione cristiana – non risulta alcuna sostanziale discontinuità fra matrimonio e famiglia, perché il matrimonio viene concepito come direttamente orientato alla procreazione; e io non intendevo né intendo mettere in questione tale rapporto .

Soltanto, quando scrivevo la poesia appena citata, voleveo sottolineare la relativa autnomia dei due momenti, e il conseguente sforzo (eroico, ripeto) che è necessario per mantenere vivo, dentro la continua lotta rivolta a tenere insieme la famiglia come tale, l’entusiasmo che dovrebbe aver presieduto alla contrazione o contratto matrimoniale.

Ma oggi, mentre trascrivevo quella poesia, è emerso un altro e ancor più drammatico aspetto di questa relativa autonomia, aspetto che ho tentato di esprimere prolungando il testo di quella poesia nella mia trascrizione in prosa :

“L’odio è un pungiglione più che una freccia: dissangua l’odiatore nell’atto stesso in cui ferisce l’odiato. La devastazione dell’odio allarga e anche restringe: è un vasto deserto di stanchezza, oppure (e anche) una grotta familiale dove ogni membro del minuscolo clan se ne sta acquattato e sornionamente aspetta la morte degli altri.

“La famiglia è l’ottavo sacramento perché è l’idea-trincea nell’utopistica guerra contro l’orrore”.

La realtà della famiglia è, nella maggior parte dei casi, dura: spesso, è orribile. Ecco allora l’importanza – commovente, eroica – dello scatto dell’utopia amorosa. [Vedi anche schegge #2356 e #2364.] Ecco perché la famiglia è, in un certo senso, sovrabbondante rispetto al contenitore matrimoniale – donde la mia “aggiunta” di un sacramento alla lista canonica. Se fossimo ancora ai tempi della severità dogmatica, l’idea dell’ottavo sacramento sarebbe già stata bollata di eresia. Ma in questi tempi, assistiamo a un fenomeno a mio parere negativo (l’indifferentismo religioso) che però è compensato da uno sviluppo positivo: maggiore tolleranza e fluidità di discorso. Oso sperare dunque che la mia formula dell’ottavo sacramento venga intesa nella sua leggerezza (che non vuol dire: mancanza di serietà) e nella sua metaforicità.

Paolo Valesio
New York