Lettera dalla vita

NOTA

Dagli anni Ottanta fino ad oggi sono andato scrivendo una Pentalogia narrativo-diaristica: cinque romanzi-diari (ovvero romanzi diarii, cioè romanzi di scrittura quotidiana), ciascuno dei quali ha una sua autonomia e un differente personaggio narratore, e che complessivamente ammontano a più di quindicimila fogli manoscritti. In due di questi testi predomina la dimensione propriamente diaristica: si tratta di un Diario quotidiano o “Tagebuch” come moltissime persone lo tengono; e di un Diario mentale che assomiglia a quello che si chiama in inglese “commonplace book”, dunque una raccolta di appunti di lavoro, citazioni, resoconti di sogni, e simili. Entrambi questi diari sono completamente inediti. Ma nei restanti tre testi prevale la dimensione narrativa o finzionale: L’uomo che perse una Pasqua è un romanzo-diario di carattere spirituale (una assai piccola parte di esso è stata pubblicata, e continua a esserlo, in numeri successivi di “Steve: Rivista di poesia”); Codex Atlanticusè un romanzo-diario più “pubblico” ovvero a carattere politico-culturale (una piccola parte è apparsa, e appare, a puntate su “Anfione e Zeto: Rivista di architettura e arti”); infine, la presente Lettera dalla vita è un romanzo-diario di tipo psicologico, e fino ad oggi interamente inedito.

Lettera dalla vita comincia (nel 1984) come una lunga lettera che un uomo (un personaggio creato dall’autore) scrive a una persona cara, ma poi si sviluppa e dirama in direzioni diverse: lettere, mini-racconti, saggi, aforismi, ecc.; fino a divenire un’immensa lettera pluridimensionale che il personaggio narrante sente come qualche cosa che la vita gli invia – cioè una lettera che la vita tutt’intorno gli scrive, ovvero che la vita scrive attraverso di lui. Le pagine che seguono, tratte dal penultimo quaderno, il numero 24, che copre il periodo dal 22 agosto 2003 al 28 gennaio 2004 (l’ultimo quaderno è quello attualmente in corso di scrittura), sono – come notato – le prime pagine di questo romanzo diario che appaiano a stampa.

 

22 agosto 2003

Nella mattina della vita, il giovane fa all’amore per curiosità. Nell’alto mezzogiorno della vita, l’uomo maturo fa all’amore per soddisfazione sensuale (è una forma di igiene, di pulizia, di allenamento atletico). Nella sera della vita, l’uomo anziano fa all’amore per offire un omaggio sacrificale alla morte; il suo è un solenne giuoco funebre. E la donna, perché fa all’amore?

 

5 settembre 2003

Da qualche parte uno psicologo (Lacan) scrive che i princìpi o motori del desiderio sono quattro: la suzione, l’escrezione, lo sguardo, la voce. E’ un pensiero araldico ed emblematico, sul quale si proietta l’ombra del quaternio junghiano, e delle divisioni tassonomiche-mnemoniche di varie esperienze, elaborate nel linguaggio dei mistici. Lo sguardo …

Lo sguardo dell’uomo giovane, anche se sensualmente avido, possiede quella certa qual purezza che nasce dalla discriminazione o selezione: è uno sguardo che si concentra sulle giovani (o sui giovani), e che predilige fra esse le più graziose. Questa discriminazione estetica può essere (è) crudele; ma, come ogni discriminazione, contiene anche una dimensione etica.

In contrasto, lo sguardo dell’uomo di media età abbraccia virtualmente tutte le donne; in questo senso è uno sguardo non crudele, uno sguardo generoso – ma è anche uno sguardo super-avido, uno sguardo dongiovannesco nel senso archetipico del termine (“Purché porti la gonnella”). Come tale, è uno sguardo eticamente povero. Eppure, può anche essere visto come un inno alla vita…

Ieri, in una galleria d’arte a Nuova York (la Neue Galerie), lo sguardo del Magro, che si aggirava per quelle sale, è caduto su una donna che anch’essa si aggirava. Nell’atmosfera lievemente allucinata che si crea quando vasti gruppi di persone osservano intensamente decine e decine di quadri diversi, tutti stimolanti, ci si aspetterebbe che lo sguardo un po’ fanatizzato dello spettatore di quadri finalmente si riposasse, quando si rivolge agli esseri reali che passeggiano intorno a lui. E invece, lo sguardo dello spettatore tende a trasferire su costoro la stessa ansia di (come dicono gli psicoanalisti) introiezione oculare.

In quel pomeriggio in galleria, ancora estivo, ma contornante la festività del “Labor Day” che chiude ufficialmente l’estate americana, lo sguardo del Magro era caduto su una donna di più di cinquant’anni, alta e piacente, ma con un seno estremo: le mammelle, sotto il leggero abito scuro, erano molto pendule, allungate verso lo stomaco. Quella vista, che avrebbe potuto essere leggermente grottesca (e per un giovane lo sarebbe probabilmente stata) ha invece provocato nel Magro un effetto diverso: le mammelle pendenti, ben avviate sulla strada dell’avvizzimento, hanno per alcuni istanti polarizzato il suo desiderio.

 

7 settembre 2003

Quando pensa alla morte (e ci pensa sempre più spesso) al Magro viene subito in mente, come contraccolpo, una donna. Non la Donna come allegoria della Morte, per carità; ma nemmeno una donna specifica, realmente esistente, a lui vicina.

Quel che gli sorge alla mente è l’idea di incontrare una donna o una serie di donne con cui potere (prima, o in luogo, di fare all’amore) parlare di un po’ di tutto, fare quella che in inglese si chiama “small talk” – ma non solo: fare anche “big talk”, parlare della vita e della morte.

Parlare di tutto davanti a un bicchiere di vino, con la prospettiva di finire presto o tardi dentro lo stesso letto … Il Magro pensa ad alcune serate di questo tipo, vari anni or sono, ma allora non c’era la stessa urgenza: c’erano solo le immagini, più o meno superficiali, della vita, dunque non si parlava veramente di tutto; la morte era assente (con il conseguente effetto – ora Il Magro se ne rende conto – di una diminuzione di intensità e di responsabilità, di un’ eccessiva eufemizzazione). Adesso invece che il Magro sarebbe abbastanza maturo per lasciare alla morte il posto che le è dovuto e per offrirle il meritato rispetto anche in una conversazione eroticamente allegra – adesso egli comincia a sentire che probabilmente non vivrà mai più (ironia della vita; o della morte) questo tipo di conversazioni che sono, come dire, radicalmente sperimentali. Questa mancanza lo rende più fragile, meno preparato, di fronte alla morte.

 

9 settembre 2003

Ogni storia d’amore che non sia organizzata genitalmente, in una relazione di tipo matrimoniale, è assurda. Gli unici modi di riscattarla sono: la concentrazione sessuale, o la corsa verso una fine amara e pericolante, sull’orlo della farsa-tragedia. Il lungo periodo del romanticismo ha mantenuto una sorta di equilibrio instabile ovvero calorosa con-fusione fra queste due vie alternative al matrimonio: ma la modernità ha eliminato questa vaporosa oscillazione, divaricando le due strade, costringendo chi non accetta l’impegno matrimoniale a scegliere fra l’ossessione erotica e l’esperienza del disastro.

 

23 settembre 2003

Piccolo flash del Magro: visione dietro le palpebre chiuse, ma da sveglio – visione o visioncina della distrazione, immotivata e forse non molto importante, ma che chiede di essere registrata.

Una donna né giovane né anziana, vista di spalle, con un vestitino leggero (cotone, lino) di color miele o pesca – una vesticciola estiva. Si sfila con un gesto rapido le mutandine di sotto la gonna, senza sollevarla; le appallottola, le getta lontano. Nulla è visibile, della sua nudità. La donna scuote leggermente la gonna con le punte delle dita, per accertarsi che le ricada bene intorno al corpo, con un gesto come di uccello che scrolli dalle piume le gocce d’acqua cadute da un ramo – e questo gesto, fondamentalmente casto, fa guizzare il desiderio.

 

11 settembre 2003

Una catastrofe storica come l’ “Undici Settembre” dovrebbe --- se ci fosse una giustizia poetica, se la vita fosse strutturata come uno spettacolo teatrale, se esistesse una continuità fra la Storia e le storie – dovrebbe ravvicinare fra loro i membri di una coppia; o separarli, senza mezze misure. Invece quello che è accaduto al Magro e a Sanziana è stato abbastanza triste: la catastrofe non li ha ravvicinati, ma nemmeno li ha portati a quella separazione che da anni aleggia nell’aria fra loro due e che ancora non si è decisa – non è stata decisa.

Ottobre 2001 … Sanziana e il Magro visitano “Ground Zero” a Manhattan – o almeno arrivano il più vicino possibile al Luogo, che è recintato e invisibile al pubblico. Hanno camminato giù per Broadway, costeggiando il fiume Hudson. Sono passati accanto a un poliziotto, seduto su un blocco di cemento, con le mani sulle ginocchia, gli occhi arrossati, e l’aria esausta; Sanziana si è rivolta a questo sconosciuto, dicendogli semplicemente: “Grazie”.

I passanti sono aumentati a poco a poco, e intorno a Trinity Church c’era una folla: un turbinìo di gente, un’atmosfera di isterismo, per così dire, composto – un isterismo silenzioso. Orde di venditori ambulanti (soprattutto asiatici) avevano disposto le loro bancarelle nelle strade all’intorno, vendendo bric-à-brac commemorativi. Sanziana ha comprato una piccola coccarda coi colori della bandiera nazionale, e il Magro, con qualche esitazione, ha seguito l’esempio di lei.

Poi Sanziana ha acquistato anche uno speciale numero commemorativo della rivista Life, risuscitata per l’occasione, con una serie di grandi fotografie patinate che sembrano cosmetizzare il disastro. Il Magro sa con quanta cura Sanziana conserverà questo fascicolo colorato. (Le rare volte in cui Sanziana gli manda ritagli di giornale, i fogli e foglietti sono impeccabilmente scontornati; il Magro invia molto più spesso, e in quantità più numerose, ritagli a Stanziana, ma li tagliuzza in fretta, così che risultano a volte sfrangiati, mutilati di righe.) Il Magro ricorderà spesso questa immagine (Sanziana che compra la rivista, la sistema con cura nella borsa), e sempre, chi sa perché, la ricorda con commozione: questo piccolo gesto di pietà rammemorante lo ha commosso di più che l’urto diretto, il crollo.

Ma quello che è rimasto più impresso nella mente del Magro è stata la loro sosta in un bar, all’inizio di quel loro pellegrinaggio pomeridiano. Si erano fermati in un posto che non avevano mai visitato prima: un pub che si chiamava “The Ear Inn”, pieno di oggetti strani, fra cui un enorme orecchio di plastica. Questo pub si trovava ancora nella sua sede storica, una casetta ottocentesca. (Sopravvive ancor oggi, “The Ear Inn”, fondato nel 1817, al numero civico 326 di Spring Street?) E’ stata una sosta breve, ma il momento è rimasto nella memoria del Magro come uno di quelli in cui ha sentito più chiaramente l’anima mitica della città. Sembrava che fossero entrati in un racconto fantastico: una di quelle situazioni in cui appare improvvisamente sulla strada una costruzione che prima non c’era – sorta dal nulla, o da un’oscurità preconscia .

Proprio nel momento in cui Sanziana e Il Magro prendevano atto che una parte dell’anima e della storia della città era irrrimediabilmente scomparsa (anche quando le Torri saranno ricostruite più grandi e splendìfere, e spendìfere, di prima), in quel momento stesso essi stabilivano un rapporto con la storia della città nell’Ottocento – e questo era una garanzia di continuità, una promessa che le perdite non sono totali e irreparabili. Quella piccola ma significativa presa di contatto con la storia della città avrebbe potuto divenire anche una ripresa di contatto fra loro due. Ma il momento è passato senza che allora, o anche nelle settimane seguenti, i due riuscissero a reagire alla tragedia storica di New York con una ripresa di impegno nel loro rapporto.

 

10 ottobre 2003

Uno dei segni dello stato di turbamento cronico del Malato (persona vicina, persona cara, per il Magro) potrebbe esser chiamato una patologizzazione del dualismo, la quale viene a costituire una retorica guasta e degradata; è la strategia del “damned if you do and damned if you don’t”: una strategia che il Malato tende ad applicare distruttivamente a se stesso. Per esempio: quando si profila il “pericolo” di trovare un lavoretto che offra un minimo di struttura alla sua esistenza, il Malato sventola la sua invalidità; ma quando la vuotezza della sua vita emerge più aspramente, allora il Malato agita il gagliardetto del diritto al lavoro. Analogamente, quando si profila la possibilità di affrontare una qualche forma di disciplina fisica (dieta o simili) il Malato invoca, per schermirsi dal seguire quella disciplina, il suo peculiare stato mentale – ma quando sembra venuto il momento di riconoscere la sua turbativa mentale, il Malato rifiuta di parlarne, trattandola come un epifenomeno facoltativo e quasi frivolo di fronte all’asserita urgenza dei suoi sintomi fisici.

In un passo della sua Retorica, Aristotele consiglia all’oratore di fondare le sue argomentazioni sulla Natura quando il suo avversario fa ricorso alla Cultura – e viceversa. E’ ovvio che Aristotele sta parlando di scelte controllate e razionali, cosi com’è chiaro (tristemente chiaro) che tale non è il caso del Malato. Meno ovvio è ciò che lo stato del Malato può insegnare a chi, come il Magro, sia pronto ad accogliere la lezione: la citata strategia di Aristotele non è una sovrastruttura razionalista, bensì – come ogni dualismo, che è una tensione fraterna o addirittura gemellare – essa affonda le sue radici nella parte più soffice e oscura dell’uomo, al disotto della coscienza.

Il Malato intravvede che la comunicazione verbale cosiddetta “normale” è traditora: e in questo egli vede giusto – in questo, egli è filosofo. La tragedia del Malato è che lui non riesce più a sviluppare le sue risorse culturali, con riferimento alla cultura nel suo senso antropologico fondamentale (che ha a che fare con la sopravvivenza) – senso che non è necessariamente connesso ad alti gradi di intelligenza o creatività o erudizione.

Queste risorse culturali di base permetterebbero al Malato di sopravvivere – attraverso una serie di piccole correzioni di tiro, aggiustamenti, compromessi – alla trappolerìa della comunicazione “normale”. Le persone cosiddette normali sono in grado di fare questo: cioè, i normali sono essenzialmente persone rassegnate; mentre il Malato è un utopista impaziente, che ha perduto gli strumenti culturali di sopportazione e autodisciplina indispensabili per quelle correzioni e correzioncine, quei grandi e piccoli aggiustamenti, che permettono al Magro e agli altri di (soprav)vivere.

Osservando il Malato – vivendo per brevi ma intensi periodi accanto a lui – il Magro si convince sempre più chiaramente che l’elemento tragicamente decisivo nella malattia mentale non è né psicologico né fisiologico, ma è soprattutto culturale. Stando vicino al Malato, il Magro ha appreso che la funzione fondamentale della cultura non è quella di un ornamento, e nemmeno di un coronamento – è una funzione terapeutica.

 

21 ottobre 2003

Il potere e la strategia… Sembra al Magro che Sanziana abbia, in questo ultimo quinquennio o giù di lì, commesso una serie di erori tattici che lo hanno progressivamente allontanato da lei.

Ma: sono stati veramente errori, oppure si trattava di sfregi e sgarri voluti, calcolati, allo scopo di allontanare il Magro – così che quelle tattiche, apparentemente erronee, in realtà si coordinavano e s’integravano in una strategia di respingimento?

O forse Sanziana era semplicemente noncurante, distratta: non le importava di commettere errori oppure no, perché aveva cominciato a non importarle nulla del Magro. Eccola, la coppia di potere e strategia: il potere batte la strategia – cioè, al potere non gliene frega niente, della strategia. 

 

24 ottobre 2003

Il Magro sta attraversando “Central Plaza” – un nome pateticamente iperbolico per questo centro commerciale che è semplicemente uno spiazzo in una zona campagnola, acccanto a un piccolo paese del Connecticut. Esce in fretta dal supermercato: è in ritardo rispetto al suo programma di commissioni per la giornata, e ulteriormente si affretta per deporre un paio di sacchetti dentro il baule dell’automobile, da cui poi deve estrarre un altro sacchetto (biancheria da portare al lavasecco).

Mentre cammina, il Magro registra semiconsciamente un rumore – quello del treno. E’ il trenino della cava di granito lì vicino: una fila di piccoli vagoni merce che trasportano i frammenti dei massi estratti dal fianco della montagna. Ma il treno viene ora riportato alla sua coscienza per il tramite di un’altra persona: una donna anziana, di media statura e un po’ atticciata, che sta ferma, appoggiata al manubrio di un carrello vuoto del supermercato, e osserva il trenino che sfila lentamente. E’ completamente assorta nello spettacolo, e un lieve ma chiaro sorriso di contentezza le aleggia sulle labbra. Il Magro scarica i sacchetti dentro la macchina e si ferma lì in piedi, con la destra appoggiata al veicolo, guardando alternativamente il treno che passa e la donna che lo contempla.

Guardare una persona che guarda qualcosa è un’esperienza di apprendimento. Quella donna ha aiutato il Magro a riscoprire il trenino – a riscoprire il piacere che aveva provato durante i primi anni della sua permanenza in quel paesino, quando lo sorprendeva il passaggio della piccola locomotiva rossa e blu che si tira dietro la sua fila di vagoni scoperti. E questa riscoperta ne apre un’altra – è come una piccola frana di nostalgia dentro di lui – : il passaggio del piccolo treno che la mamma lo portava qualche volta a vedere da bambino, nella sua lontana città natale; un treno vicino a casa, che introduceva un ‘aria di campagna in un viale di periferia. Era uno dei suoi due divertimenti di bambino povero – l’altro era quello di andare con la madre nel cortile dell’Istituto di Medicina Zoologica dell’università, a guardare un gruppetto di fagiani sparuti (portatori di chissà quale malattia) che si aggiravano dentro una gabbia.

I ricordi sono come quelle scatolette o scrigni o piccole bambole che si aprono in una piccola vertigine l’una dentro l’altra; e, come quelle bambolette, non hanno alcuna funzione precisa – bastano a se stessi, offrono un’indulgenza vellutata priva di lezioni etiche. (E’ per questo forse che pensatori austeri come Kierkegaard ne diffidano.) Adesso il Magro ricorda la tarda mattinata di alcuni anni or sono, in cui aveva attraversato in macchina i binari tutto assorto nei suoi pensieri senza rendersi conto che le due luci rosse erano accese e il campanello aveva cominciato a suonare. (In questa minuscola ferrovia le sbarre del passaggio a livello non si abbassano mai, e l’unico avvertimento è costituito dalla combinazione delle luci e del campanello.)

E’ stato il pericolo più grave che il Magro abbia mai corso viaggiando in automobile: era appena arrivato dall’altra parte dei binari quando aveva sentito alle spalle il vento e il fischio allarmato del treno, e solo allora si era reso conto di esser stato sul punto di venir tagliato in due – così, casualmente, quasi allegramente, di ritorno dalla spesa, in una bella mattina di sole. Un’altra volta, il Magro aveva cominciato a raccontare una fiaba a se stesso, e aveva perso il senso del confine tra la fiaba e la realtà, così che adesso non ricorda bene in che spazio di mondo (in quale universo) si trovasse in quel momento. Si ricorda soltanto che a un certo punto gli era apparso necessario, ai fini di quel racconto che stava narrando a se stesso, documentarsi su alcuni dettagli; e per questo aveva cominciato a seguire i binari a piedi, dal passaggio a livello con le sbarre sempre alzate fino alla scarpata della cava, da dove poteva vedere – in alto, al culmine dello scoscendimento – gli uffici della ditta “T. T.”, che sembravano una piccola fortezza misteriosa. E appunto, mentre lui guardava, da questo fortilizio era uscito un camioncino pilotato da una guardia, che era corso verso di lui come la barca di Caronte; la guardia aveva severamente ricordato al Magro che quella era proprietà privata, e che doveva sloggiare subito. Così, il mistero non si era mai chiarito.

Adesso, mentre mette in moto l’automobile ed esce dal “Central Plaza”, il Magro pensa con un moto di gratitudine a quell’anziana, alla quale non ha parlato e che non rivedrà mai più, per avergli insegnato a guardare meglio. Quel sorriso pallido e tenero – veramente autunnale – gli ricorda un sorriso analogo, che non ha nulla a che fare coi treni.

E’ il sorriso di una donna amata, e poi da lui sciaguratamente antagonizzata, molti anni prima. Erano seduti su una panchina di Washington Square Park, esausti dopo una lunga conversazione in cui il Magro le aveva confessato una sua amante. Era uno sforzo onesto del Magro per liberarsi da quel legame di cui continuava a sentire l’attrazione (ma in questa sua onestà c’era anche una crudeltà). Furono comunque i loro ultimi momenti di comunicazione dignitosa; e, se i litigi degli anni successivi si rivelarono laceranti, queste prime conversazioni, reciprocamente rispettose, erano strazianti.

Ma a un certo punto la donna disse al Magro – con un sorriso pallido e triste e stanco, e anche per questo molto bello (un sorriso che il Magro non può dimenticare) – indicando il sole che calava dietro le alte torri-palazzi di Manhattan: “Guarda com’è bello il tramonto!” Sono pochi (o zero), nella vita degli esseri umani, i momenti che possono esser chiamati sublimi; ma, nella grama e selvaggia vita del Magro, questo fu un momento sublime. Con quell’invito e quel sorriso tramontante – ma erano giovani tutti e due – quella donna (anche lei) insegnava al Magro a vedere, veramente e profondamente vedere.

 

1 novembre 2003

Il Magro scopre improvvisamente (e lo coglie il panico dell’esilio) l’anniversario dell’assassinio del presidente Kennedy – e contestualmente scopre il senso di una differenza: quella tra ricordi condivisi e ricordi non condivisi. Il Magro ha sperimentato il tumulto circostante alla fucilazione di Kennedy mentre abitava da solo negli Stati Uniti – dunque non ha condiviso questa esperienza con nessuno. I ricordi condivisi invece sono, per così dire, più ricordi degli altri; la possibilità di rievocarli insieme con un’altra persona – come due seduti l’uno accanto all’altra sul divano che sfogliano un album di fotografie in cui entrambi appaiono spesso – crea un’atmosfera più calda, più nostalgica.

Il Magro ricorda per esempio, con calore e un senso di elegia, lo scandalo di “Watergate”, che ha portato alla fine della carriera politica di Richard Nixon; e il caldo senso di elegia non deriva ovviamente dall’evento in sé, ma dal fatto di aver condiviso con una donna certe serate davanti a un vecchio televisore. Com’era da aspettarsi, fra i due poli dei ricordi condivisi e di quelli non condivisi si estende tutto un territorio intermedio, che è poi quello dove si situa la maggior parte dei casi concreti (come per esempio l’ “Undici Settembre”, condiviso ma non abbastanza con Stanziana).
                             

1 novembre 2003 (più tardi)

La solitudine sottolinea il peso della vita come lavoro – la fatica, il logorìo, l’esistenza come job (vedi il pavesiano “Mestiere di vivere”).                          

 

9 novembre 2003

L’esistenza che il Magro conduce – lavoro continuo, 24 ore su 24, 7 giorni su 7 – gli sta accorciando la vita, oppure è ciò che sostanzialmente lo tiene in vita?

 

23 novembre 2003

In un articolo sul processo a due “cecchini” che hanno terrorizzato l’anno scorso l’area intorno a Washington D. C. ucccidendo varie persone a casaccio, un giornalista riporta (sul New York Times di ieri) un particolare concernente un certo signor Hopper, colpito da una fucilata mentre usciva da un ristorante nello stato di Virginia il 19 ottobre 2002:

“Quel mercoledì, Stephanie Hopper moglie del signor Hopper testimoniò che il proiettile arrivò mentre si tenevano per mano e si prendevano bonariamente in giro. Stavano discutendo, ha dichiarato Stephanie, su chi amasse l’altro di più. (Il signor Hopper è poi sopravvissuto alla ferita.)”

L’articolo non menziona l’età dei due sposi, e la prima reazione del Magro è stata: deve trattarsi di una coppia di sposini. Ma poi ha cominciato a pensare che forse era una coppia di mezza età, o anche più anziana; e questa possibilità lo ha commosso. Chiunque, pensa il Magro, può essere sempre colpito subitaneamente dalla “freccia che vola di notte” (come dice il Salmista) – e questo non dipende da noi… Ma quel che dipende da noi, dalla forma che abbiamo saputo imprimere alla nostra vita, è in che atteggiamento ci sorprenda, quel fulmine. Un uomo è colpito in un momento di felicità, in una effusione di bontà: ciò rende questo colpo meno, o più, ingiusto? E’ impossibile, e in fondo inutile, rispondere adeguatamente a questa domanda. Quel che conta è capire che uno stato di infelicità non protegge da ulteriori disastri: tanto vale dunque perseguire francamente la felicità e coltivare la bontà – lasciando che la sventura sviluppi le sue proprie, tristi risorse.

Leggendo di questa coppia il Magro ne ha ricordata un’altra, che ha visto. Nel primo anno in cui (fresco della sua seconda cittadinanza) il Magro ha votato, si trattava di un’elezione a livello di quel singolo stato, e fino all’ultimo lui era stato incerto se scomodarsi ad andare. Si era poi deciso a uscire, mentre già calava il crepuscolo autunnale – e mentre la televisione già diffondeva le proiezioni sul voto (ma il Magro non aveva nemmeno aperto l’apparecchio, dunque era libero da ogni influsso). Aveva avuto difficoltà a trovare il vialetto che conduceva alla scuola, lungo l’Autostrada Ottanta, alla quale lui faceva capo come votante (e già un paio di volte era stato tentato di far marcia indietro e tornarsene a casa senza votare). Ma finalmente aveva parcheggiato, e si era avviato a piedi lungo un viale alberato verso un lungo, basso edificio a capannone (per un attimo, aveva sentito l’atmosfera della periferia della sua città natale).

Improvvisamente, nella luce sempre più fievole, aveva scorto due persone che anche viste di spalle rivelavano la loro mezza età – e che camminavano verso lo stanzone con le cabine elettorali, tenendosi per mano. Era un gesto semplice, ma da cui emanava una certa solennità: confermando fiducia l’uno nell’altra, quelle due persone obiettivamente sottolineavano l’importanza del gesto che stavano preparandosi a compiere, come gesto di fiducia verso lo stato, che in questo modo essi accettavano come comunità di eguali. Camminando dietro di loro, verso il suo voto solitario, il Magro aveva sentito che il voto di quei due sconosciuti in fondo valeva più del suo: non come aggregazione di due contro uno, ma perché era l’espressione di una coppia.

 

25 novembre 2003

L’amor materno è stato nei secoli, e continua a essere, l’alibi più eticamente convincente per l’opportunismo. In quanto forma esaltata e più o meno sublimata dell’egoismo (a glorified egotism, per dirla all’inglese), l’amor materno pretende di giustificare eticamente anche le tattiche meno edificanti, in quanto adottate a vamtaggio della prole.

L’egoismo materno non è immorale o amorale – è premorale, perché fondato sull’esigenza biologica di conservare e propagare la specie. L’insistenza sull’aspetto generativo della famiglia (cui si è accennato anche prima) caratterizza i due poli apparentemente opposti nella descrizione dei rapporti fra i sessi: il polo della critica demistificante (di cui Schopenhauer, nei suoi saggi sull’amore e la sessualità, resta un eccellente esempio), e il polo istituzionalmente religioso del crescite et multiplicamini. A proposito di quest’ultimo, non si è ancora sottolineato abbastanza che, in quella performanza geniale ed eversiva che è la predica agli uccelli, Francesco d’Assisi – esortando gli uccelli ai loro doveri piuttosto che vezzeggiarli con i loro diritti – realizza un apparente paradosso che in fondo equivale a un gioco di sponda ovvero alla strategia del parlare-a-nuora-perché-suocera-intenda. La sua maniera di parlare agli uccelli, infatti, è anche un modo di insistere pittorescamente sulla base genitale-generativa del matrimonio.

Tra i due poli appena descritti si stende la vasta palude post-romantica, cioè il territorio in cui il grande slancio romantico (ancora attuale, ancora ispiratore, se recuperato nel suo nucleo sorgivo) si è progressivamente banalizzato. La retorica del senso comune (retorica spesso e volentieri ingannevole) tratta, in simili casi, lo spazio centrale fra i due poli opposti come lo spazio del realismo. Ma in questo caso il realismo si trova invece ai due estremi già menzionati – entrambi riguardanti il matrimonio come propagazione della specie: sia che questa propagazione venga vista in una luce biologico-materialistica, sia che venga santificata in quanto sacramento.

 

3 gennaio 2004

Il circolo vizioso – no, il circolo virtuoso – dell’amore: se è chiaro che per essere desiderati bisogna essere desiderabili, è d’altra parte plausibile (anche se appare meno evidente) che per essere desiderabili occorre essere desiderati.

 

10 gennaio 2004

Il Magro tende sempre più a chiudere improvvisamente gli occhi, e tenerli chiusi per lunghi secondi che paiono minuti; e non è solo per un colpo di sonno, non è solo nei momenti di raccoglimento. E’ una stanchezza pericolosa, perché evoca troppo da vicino (too close for comfort, come dicono lì) la chiusura finale.

 

22 gennaio 2004

Carissimo,

Il 19 gennaio mi hai annunziato al telefono la morte del gatto Figaro in età di 16 anni, e quello stesso giorno ti ho scritto una lettera a questo proposito. Stamattina poi, mentre ci pensavo mi sono affiorate le lacrime agli occhi – le lacrime che non mi erano venute per la morte di mio fratello! Ma, francamente, non mi sento colpevole per questo. La scomparsa di mio fratello ha dato vita (l’ossimoro non è ozioso) a un omaggio più forte – viaggio in Italia per partecipare ai suoi funerali – e ha lasciato tracce più profonde. (Per esempio, ho ricominciato a pregare: ma solo quando faccio la doccia, e solo per mio fratello. Perché sotto la doccia? Perché una volta una donna dai capelli rossi mi ha portato a una funzione evangelica, e il ministro del culto – istrionico al limite dell’energumenico – ci esortò a lasciarci inondare ogni mattina dalla preghiera come ogni mattina ci facciamo bagnare dallo spruzzo dell’acqua quando tiriamo la catenella della doccia – disse proprio così, “tirare la catenella della doccia” – evocando un’America antica o quantomeno rurale – le docce in tutti i vari appartamenti della mia vita americana hanno sempre avuto un pulsantino da spingere o tirare – forse è per questa bizzarrìa che la frase mi è rimasta impressa – comunque non avevo mai seguito quel suggerimento fino a quest’estate, dopo la morte del fratello, e da allora la doccia – sempre la doccia, e come dicevo soltanto la doccia – è divenuta per me il luogo della preghiera – ma scusami, sto divagando.)

D’ altra parte, in questi ultimi anni non vedevo più mio fratello, mentre a ogni passaggio per l’Italia visitavo a casa tua il gatto Figaro; e ogni volta notavo che lui era in effetti il genius loci di quella casa. Ciò che ho appena scritto mi ha fatto venire in mente che non ricordo più quando sia stata l’ultima volta che ho visto mio fratello – e questa sì è una lacuna che mi addolora, che mi causa una sorta di rodimento interiore – mio fatello evitava ogni occasione d’incotnro fra noi – credo che questa nostra assenza l’uno dall’altro abbia causato una profonda erosione nelle nostre vite – ma questa è un’altra storia.

Tornando a Figaro. Ho ricevuto oggi, dunque una settimana all’incirca dopo la sua scomparsa, una tua lettera (datata al 18.1.04, il giorno prima della sua morte), in cui mi parlavi della debolezza di Figaro, e precisamente scrivevi: “Di questo passo, se ne andrà presto”. Questo incrocio di lettere o gioco di sincronicità, in cui ricevo un messaggio dove si parla di una creatura come ancora viva dopo vari giorni che avevo appreso la sua morte, mi ricorda – è ancora un parallelo fra il tuo pet e le mie persone care – e, ancora una volta, è un parallelo di cui non riesco a essere imbarazzato – mi ricorda il momento, nell’autunno del 1985, quando ricevetti una lettera di mio padre alcuni giorni dopo aver appreso la sua scomparsa...

Figaro è stato un grande gatto – e non solo per le sue dimensioni fisiche (non so come abbia fatto a sopravvivere, e così bene, fino a quella tarda età, con le grosse quantità di cibo che tu continuavi a servirgli). Figaro è stato un grande gatto perché è stato una nuvoletta bianca. “Questo non è un gatto”, disse una volta un mio ex-amico specialista di logica analitica – e mi parve l’osservazione più filosofica che avessi mai udito da lui – ma poi la conversazione per qualche ragione s’interruppe e io non venni mai a sapere che cosa lui intendesse esattamente dire, così quella frase mi è rimasta nella mente come un enigma – ma forse è proprio questo che la rende così filosofica per me – cioè, quello che mi piace pensare è che anche quell’ex-amico avesse come me colto la natura fantasmatica di Figaro – Figaro come piccola nube, Figaro come idea di gatto (non: gatto ideale) più che come gatto quotidianamente concreto.

Figaro è stato un grande gatto anche perché è stato un gatto tirannico, un gatto-sultano, che ha dominato la tua sparuta famiglia. Ma quello che mi aveva più colpito, durante il mio ultimo passaggio in Italia nel dicembre dell’anno scorso, è stato l’aspetto in certo senso opposto a questa sultanità – è stata la sua fragilità.

Figaro che si trascinava per casa negli ultimi tempi, dimagrito e debole, mi ricordava mia madre distesa nel suo eterno letto (sembra proprio che io non possa sfuggire da questi paralleli tra Figaro e i miei cari...). Se ricordi, anche in quegli ultimi giorni di dicembre avevo fatto – o almeno tentato di fare – con lui il mio solito gioco: scalzarmi di una scarpa, e mettergliela accanto; in memoria di una quindicina di anni or sono, quando lui era un micino, e gli piaceva entrare e rannicchiarsi in una mia calzatura lasciata temporaneamente disabitata. Negli anni successivi i tentativi di Figaro – divenuto nel frattempo un grosso e grande gatto (un gatto-nuvola) – di entrare nella mia scarpa, divenivano sempre più ridicoli; eppure io, anche quando ne sorridevo con te, sentivo che qualche cosa di profondamente serio stava svolgendosi sotto i miei occhi – qualche cosa che mi istruiva sulla vita, e che anche mi inteneriva.

Tentando di entrare nella scarpa il gatto manifestava chiaramente una nostalgia dell’utero e delle origini. Quando noi, borghesi pseudo-moderni, parliamo di qualche cosa di simile, sentiamo il bisogno di farlo con un tono di scusa – un tono ammiccante – un tono per così dire virgolettato. Ma queste sono le profonde verità della vita, che vanno dette senza virgolette. Grazie a questo piccolo rituale della scarpa, Figaro mi regalava un privilegio: il privilegio di poter osservare da vicino uno di quei moti di nostalgia primordiale che di solito noi non riusciamo a scrutare in modo diretto, ma dobbiamo dedurre indirettamente attraverso tutti i giochi di maschere e di specchi cui facciamo ricorso per riuscire a sopportare le nostre vite.

Se ricordi, avevo proposto a Figaro questo gioco rituale anche durante il mio passaggio del dicembre scorso nella tua città: ma lui, già esausto, non manifestava quasi mai un particolare interesse verso la scarpa vuota – e ciò mi aveva rattristato. Ma in fondo erano ancora più tristi le rare occasioni quando lui accettava la sfida e provava il gioco: non aveva la forza sufficiente a far di più che abbozzare il gesto. Quest’ultima era (permettimi quello che non è una sottigliezza, bensì un necessario chiarimento) la mimesi di una mimesi.

Voglio dire: anche quando Figaro era ancora in forze e sanità, già non poteva più che mimare il gesto di entrare nella scarpa, perché (come dicevamo) era troppo grosso – troppo nuvolone. Ma quello era un mimo sano e allegro, un mimo sotto controllo; era pertanto il tipo di mimesi che è essenziale, connaturata, al rito. (Il rito ha a che fare con la felicità e con l’affermazione della vita – cosa che gli ateistici dispregiatori dei miti spesso dimenticano.) Insomma, Figaro volutamente fingeva l’ingresso nella calzatura; dunque, amministrava il suo rito del ritorno primordiale. Ma il povero gatto logorato che non riusciva più nemmeno a imitare in modo persuasivo l’entrata nella scarpa mimava involontariamente e goffamente il suo stesso rito: ecco la non-platonica mimesi della mimesi di cui Figaro era involontario protagonista.

Eppure, adesso che, per il fatto stesso che ti sto scrivendo, ci penso meglio: forse anche in questa seconda mimesi, tarda e dolorosa, si annidava un rito ... Con questo suo estremo e flebile tentativo di mimare l’entrata-in-scarpa Figaro stava dicendoci che gli mancava l’energia fisica, ma non gli faceva ancora completamente difetto la voglia – l’energia della vita all’interno della vita – l’energia della vita psichica che fino all’ultimo lotta con la materia. Insomma, parte di quello che egli stava facendo in quei giorni, quando ogni tanto decideva di non ignorare la scarpa che gli porgevo e strisciava verso di essa e poi un poco sopra il suo orlo, era un tentativo di venire incontro alle nostre aspettattive – di farci piacere. Ma allora, anche quello era un rito – era un ritale dell’altruismo – diciamo pure, un rituale dell’amore.

Sai, ho sempre trovato che c’è qualche cosa di freddo, di rancoroso verso gli esseri umani, in certe difese estremistiche dei diritti degli animali; e Figaro infermo di vecchiaia ma ancora impegnato in certi riti di vita mi ha aiutato a capire perché – e mi ha aiutato a meglio comprendere quel testo-azione profondo che è quell’antica predica agli uccelli, nel cuore dell’Umbria. Quello a cui Francesco esorta gli uccelli parlando dei loro doveri piuttosto che dei loro diritti non è qualche cosa di arcigno e punitivo: è invece fondamentalmente uno scavo – uno scavo maieutico – che rivela agli animali la bontà che dentro di essi si annida, e che né gli uomini né gli animali stessi possono portare alla luce se si fondano esclusivamente sulle loro forze. Ma, dove sono andato a parare? Non lo so più nemmeno io – allora è meglio che ti saluti. Con affetto, il tuo Magro            

 

25 gennaio 2004

Oggi il Magro è tornato a casa dall’ufficio a metà giornata, con il pensiero già pre-occupato dai passi seguenti, che deve intraprendere prima di dedicarsi (finalmente!) a un certo lavoro importante per cui ha disertato, quel giorno, l’ufficio: cioè, prima di mettersi a quel lavoro vuole consumare un rapido spuntino, e poi fare una corsa alla lavanderia (che adesso ha una sede nuova, in un luogo pittoresco ma non facile da raggiungere, al termine di una strada in salita ripida e tortuosa, che in quella zona è appunto chiamata “Strada della Collina a Serpentina”).

Quello di pensare troppo in avanti, di bruciare l’istante in cui sta vivendo con l’impazienza di raggiungere lo stadio seguente è – il Magro lo sa, ma spesso lo sa soltanto in astratto – uno dei suoi maggiori difetti, che gli rende così difficile, da un lato godersi la vita, dall’altro (e soprattutto) sviluppare il senso dell’eternità, che (oh Kierkegaard, Kierkegaard, presenza così ispirante da essere quasi oppressiva) non può radicarsi se non nell’istante.

Come di solito, entra a marcia indietro nello spiazzo di fronte a casa dove parcheggia l’automobile. (Il Magro fa così da quando la sua donna di servizio, che dà una pulitaccia alla casa una volta alla settimana, gli ha fatto notare che in questo modo il lato del guidatore è più riparato dal vento dell’ovest, dunque il lucchetto dello sportello corre minor rischio di congelarsi.) Ma pre-occupato com’era da quello che voleva fare in fretta e furia (era come se fosse già uscito dall’automobile mentre stava ancora pilotandola), è entrato troppo rapidamente, la parte posteriore del veicolo ha battuto contro il tronco di un albero, e il paraurti si è incurvato.

Era la prima volta che il Magro commetteva un errore di parcheggio: ne è rimasto mortificato. E quando poi, dopo lo spuntino consumato in piedi davanti all’acquaio, è risalito sull’automobile col suo fagotto di panni zozzi per andare a percorrere la strada serpeggiante verso la lavanderia, ha guidato con una prudenza nervosa.

Proprio a questo pensava, guidando da solo – senza nemmeno la compagnia della radio, che nella sua vecchia automobile è defunta da più di un anno – pensava, come a volte gli capita in inglese – e si diceva che, non solo guidando l’automobile ma anche nelle altre manifestazioni della vita, lui è restless, cioè irrequieto, ma non reckless, vale a dire: incauto o spericolato – e questo pensiero lo ha riportato alla calma, lo ha rassicurato. In fondo, anche gli incidenti di parcheggio servono a studiarsi e conoscersi meglio.                      

 

11 dicembre 2003

Circa il cinquanta per cento dei cliché sono fondamentalmente esatti; e l’altra metà, essenzialmente erronei. La saggezza consiste nel distinguere, caso per caso, fra gli uni e gli altri.

 

28 gennaio 2004

Il Magro ricorda che una volta da ragazzo sua madre gli disse – è una delle poche frasi autentiche (nel senso di vere, concrete) che ricordi di lei, che parlava così poco, al difuori delle immediate necessità della comunicazione quotidiana – e adesso che lei è così rovinosamente anziana, anche queste frasi per quanto originariamente modeste sono diventate preziose – ma forse chi ha detto quella frase non è stata la madre, bensì la madre della madre del Magro – al Magro dunque sembra di ricordare che una volta sua madre (ma forse era sua nonna) gli disse – però non ricorda le parole esatte – gli disse che un uomo deve fare due esperienze prima di potersi dire veramente tale: l’esperienza della donna e quella della galera.

Se le cose stanno così, allora il padre del Magro (per cinque anni prigioniero di guerra) è stato veramente uomo, mentre il Magro – cui ancora manca l’esperienza (politica o militare o criminale) del carcere, è un uomo non pienamente realizzato.

 

Nuova prosa, 44, numero speciale dedicato a "Prospettive italiane" (marzo 2006), pp. 61-78.